Il primo farmaco per la sclerosi multipla progressiva

 

 

LUDOVICA R. POGGI

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XIV – 13 febbraio 2016.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: NOTIZIA/BREVE DISCUSSIONE]

 

Le forme più frequenti di sclerosi multipla, malattia degenerativa della mielina a patogenesi autoimmunitaria con forte impronta infiammatoria che ormai costituisce la patologia neurologica più diagnosticata fra i giovani adulti, presentano un andamento a fasi alterne di riaccensione e remissione[1]. Quando si tratta la terapia farmacologica della sclerosi multipla, implicitamente si fa riferimento a tali forme cliniche, per le quali si sono registrati i maggiori progressi in termini di nuovi trattamenti e risultati. Tuttavia, una percentuale di casi che in differenti studi varia dal 10 al 15%, non ha un andamento recidivante e si sviluppa con una continuità che procede verso un peggioramento (forme progressive), sia quale caratteristica della malattia fin dal suo emergere clinico sia quale mutamento peggiorativo di una forma remittente-recidivante. Le forme che si presentano continuamente progressive fin dall’esordio, generalmente si manifestano in età più avanzate della vita e si caratterizzano per uno stabile peggioramento dei sintomi principali. Per tali forme di sclerosi multipla non vi è stato, fino ad oggi, un trattamento efficace, ma sembra che fra non molto si potrà disporre del primo farmaco attivo in questi casi: l’ocrelizumab[2].

Tre grandi trials clinici, conclusi nel settembre 2015 per conto di un’importante casa farmaceutica[3], hanno fatto registrare risultati più che positivi sia per le forme remittenti-recidivanti che per quelle progressive trattate con l’ocrelizumab, un anticorpo iniettabile diretto contro i linfociti B. Gli studi di sperimentazione clinica, che hanno visto la partecipazione di Stephen Hauser, neurologo dell’Università della California a San Francisco, hanno impiegato anche il metodo del controllo mediante il confronto con il farmaco correntemente più efficace nelle forme trattabili, ovvero le remittenti-recidivanti: l’interferone β-1a.

L’interferone β-1a (Rebif) è un farmaco prescrivibile dal 2002, di regola somministrato per iniezione transcutanea tre volte la settimana. Come l’interferone β-1b, già prescrivibile dall’inizio degli anni Novanta[4], riduce l’infiammazione abbassando i livelli di citochine ed ostacolando il traffico delle cellule immunitarie attraverso la barriera emato-encefalica[5]. Gli effetti terapeutici del Rebif sui parametri rilevati delle forme remittenti-recidivanti sono quanto di meglio si possa ottenere attualmente in clinica, ma queste verifiche sperimentali hanno provato che l’ocrelizumab può fare di più.

Ma il risultato più rilevante è la capacità mostrata dal nuovo farmaco di rallentare lo sviluppo dei sintomi della forma progressiva con una costante efficacia durante tutte le 12 settimane di durata dello studio.

La nozione dell’efficacia del nuovo anticorpo in entrambe le forme di sclerosi multipla costituisce una traccia di estremo interesse per i ricercatori che indagano l’eziopatogenesi della malattia, e per coloro che stanno cercando di comprendere perché l’infiammazione delle forme recidivanti in alcuni casi si trasforma in degenerazione progressiva.

La relazione fra processi autoimmunitari e degenerativi non è ancora stata definita e la ricerca che ne indaga le basi biologiche fa riferimento a tre principali ipotesi di lavoro, come si legge in questo articolo di Giovanni Rossi: “Intanto, per spiegare il rapporto fra la fisiopatologia autoimmunitaria e quella neurodegenerativa, sono in campo tre diverse ipotesi, da qualche autore definite “teorie”:

1) il danno derivante da anni di attacchi immunitari innescherebbe, nei neuroni e negli oligodendrociti produttori di mielina, una cascata distruttiva in grado di autoalimentarsi, responsabile della sezione degli assoni e della conseguente necrosi della cellula nervosa;

2) un attacco autoimmune silente e non rilevabile con i comuni metodi di accertamento sarebbe costantemente presente negli ammalati e persisterebbe indisturbato anche durante le terapie immunosoppressive, causando una neurodegenerazione inizialmente inapparente e poi conclamata;

3) la sclerosi multipla sarebbe una malattia primariamente neurodegenerativa e solo secondariamente autoimmune: un difetto ereditario o l’azione di fattori ambientali quali virus, innescherebbe processi neurodegenerativi con la morte di cellule e la liberazione di proteine che darebbero il via ai fenomeni autoimmunitari”[6].

Tanto ricordato, i risultati di questi trials clinici ancora una volta attraggono l’attenzione sullo stretto rapporto fra infiammazione e degenerazione, fornendo apparentemente un supporto alla tesi di una dipendenza della degenerazione dall’infiammazione con componenti autoimmunitarie. Lo stesso Stephen Hauser, dopo aver sottolineato lo stretto rapporto fra infiammazione e degenerazione, ha recentemente dichiarato a Diana Kwon: “La grande domanda ora è, se cominciamo il trattamento realmente presto, possiamo proteggere i pazienti recidivanti dallo sviluppo in seguito di problemi progressivi?”[7]

Si rischia, secondo la nostra opinione, di esagerare i meriti di questo anticorpo, che sicuramente blocca un importante processo patogenetico, ma non si vede come possa intervenire sugli eventi molecolari in gran parte ignoti che innescano la degenerazione. Se l’ocrelizumab è davvero tanto efficace, la sua somministrazione precoce potrebbe divenire un protocollo fisso e, in tal modo, si potrebbe verificare se su un grande numero di pazienti trattati negli anni la percentuale di forme progressive si riduca sensibilmente rispetto ai valori attuali. Non ci si può attendere che tale trattamento fornisca elementi significativi sul rapporto fra infiammazione e degenerazione, a meno che non si rilevi un’efficacia sulle forme fin dall’inizio degenerative. In ogni caso, si dovranno attendere i risultati della ricerca di base, che si spera possa presto giungere alla comprensione degli elementi cruciali che collegano processi reattivi e degenerativi.

Intanto, l’approvazione da parte della FDA dell’ocrelizumab attesa in questi giorni, potrebbe garantire la sua disponibilità a partire dal 2017.

 

L’autrice della nota ringrazia la dottoressa Floriani e invita alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Ludovica R. Poggi

BM&L-13 febbraio 2016

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

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[1] Cfr. Note e Notizie 06-02-16 Nella sclerosi multipla un sorprendente comportamento delle cellule NK.

[2] Si ricorda, di passaggio, l’impiego dal 2004 del natalizumab, che preclude l’attraversamento della barriera ematoencefalica da parte dei leucociti legandosi ai recettori impiegati da queste cellule per la traslazione attraverso la parete vascolare, e la revisione cui è stato sottoposto l’alemtuzumab perché causava una drastica immunosoppressione.

[3] La Hoffmann-La Roche.

 

[4] Prescrivibile come Betaseron dal 1993.

[5] Cfr. Note e Notizie 01-06-13 I nuovi farmaci e qualche risposta sulla sclerosi multipla. Si raccomanda la lettura di domande e risposte riportate in questo articolo, perché si fa riferimento alla vitamina D, ai 158 mezzi terapeutici diversi impiegati storicamente per la cura della sclerosi multipla, al clima, al sole e alla latitudine sulla base di accurati studi epidemiologici.

[6] Note e Notizie 25-05-13 come sta cambiando la terapia della sclerosi multipla.

[7] Kwon D., in Scientific American Mind 27 (1): 14, Jan/February 2016 [Tr. dell’autrice].